Giacomo Matteotti

Mario Coppetti ricorda Giacomo Matteotti
10 giugno 2004, San Vitale, Cremona

Signore, Signori, compagni,
assume per me una grande importanza il fatto che a ottanta anni dalla sua uccisione, degli uomini vogliano ricordare – come testimonianza di un mai affievolito affetto – Giacomo Matteotti, ed esprimano pubblicamente questo generoso sentimento affinché i più giovani, quelli che fortunatamente non hanno vissuto la vergogna del fascismo e la tragedia della guerra, possano conoscere un triste periodo del nostro passato, da cui trarre insegnamento perché non si abbiano  mai più a verificarsi simili fatti.
Desidero accomunare nel ricordo, e rendere omaggio a quei coraggiosi che a prezzo di grandi sacrifici lottarono per lunghi oscuri anni per tenere viva la fede nella speranza di riconquistare la perduta libertà.
Non posso nascondere una particolare emozione nell’accingermi a ricordare con voi l’apostolo del socialismo italiano Giacomo Matteotti perché a volte ancor mi par di sentire le tante voci di uomini e donne che con un senso di grande angoscia, quel giorno, andavano gridando e ripetendo sgomenti: “hanno ucciso Matteotti, hanno ucciso Matteotti”.
Anche se fanciullo – avevo allora 11 anni – il ricordo di quei giorni è sempre stato presente in me e lo è ancor oggi, a distanza di tanti anni.
Ricordare la figura di Giacomo Matteotti non è una cosa facile; è difficile, forse impossibile, trasmettere quello che ha rappresentato negli anni oscuri della dittatura fascista la sua figura, il suo ricordo. Egli è stato, per tutti gli antifascisti italiani, il simbolo della libertà, del dovere a continuare la lotta contro la dittatura, la oppressione e la violenza. Per gli uomini liberi di tutto il mondo la testimonianza che gli italiani non erano tutti fascisti.

Giacomo Matteotti era nato a Fratta Polesine, provincia di Rovigo, il 22 maggio del 1885, da una agiata famiglia di proprietari terrieri. Dopo essersi brillantemente laureato in legge, nel 1907 a Bologna, compì numerosi viaggi in vari paesi d’Europa per studiare le varie legislazioni e le lingue.
Accumulò così una solida cultura giuridica e profonda conoscenza dei problemi economici, politici e sociali dei vari paesi visitati.
Tornato in patria, egli assume una chiara posizione come organizzatore dei lavoratori agricoli del Polesine. Nel 1910 fu eletto nel consiglio provinciale di Rovigo e nel 1912 divenne sindaco di Villa Marsana, assessore a Fratta Polesine e consigliere in altri comuni. Nel 1915, eletto segretario della lega dei comuni socialisti, svolge una intensa attività a favore dei contadini.
Egli esercitò una decisa opposizione all’entrata in guerra dell’Italia, polemizzando con il suo partito e con lo stesso Turati. Chiamato alle armi, non fu ammesso al corso ufficiali perché ritenuto sovversivo e relegato in Sicilia in una sosta di internamento. Congedato, nel 1919 tornò nel suo Polesine dove erano in atto aspre lotte sociali.
Grazie al suo costante impegno, il Partito Socialista conquistò da solo la maggioranza in tutti i 63 comuni della provincia e 38 seggi su 40 nel consiglio provinciale.
Nel novembre del 1919 venne eletto deputato socialista nel collegio Ferrara-Rovigo.
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Fu tra i primi, con grande coraggio fisico e morale, a denunciare nel paese e in Parlamento l’estrema pericolosità delle violenze fasciste. Per questo egli subì aggressioni e percosse, ma nessuna minaccia poteva distogliere quest’uomo dal suo amore per le plebi del suo Polesine e d’Italia. Per la loro emancipazione egli rinunciò ad una vita serena e tranquilla.
Il suo insegnamento lo troviamo nella fecondità dello spirito di sacrificio da lui incarnato e nella insopprimibilità della questione morale.
La sua lotta contro la faciloneria, il pressapochismo, la demagogia, il suo costante richiamo – fatto con l’azione più che con le parole – al rigore, alla serietà, alla responsabilità, non erano fatti per conciliargli facili simpatie, e non ne ebbe molte nemmeno da parte della stessa classe dirigente della sinistra.
Per il suo infaticabile attivismo Matteotti era stato chiamato alla segreteria del Partito Socialista unitario, nell’ottobre del 1922.
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Per la sua giovane età egli svolge un lavoro di grande impegno, in un partito sorto da poco da una scissione. In quel partito di cui facevano parte Turati, Treves, Modigliani, Prampolini, Matteotti era diventato non soltanto l’organizzatore instancabile ma anche l’ispiratore politico tanto che anche il vecchio indiscusso patriarca del socialismo italiano, Filippo Turati, ne subiva il fascino. Il suo giudizio (scrive in una acuta analisi lo storico Gaetano Arfé) è perciò egualmente severo contro quegli uomini e quei settori del suo partito in cui si tende “a fare il morto” fino a quando la bufera non sia passata e dove addirittura allignano volontà di capitolazione di fronte ai comunisti i quali predicano e sperano in una impossibile dittatura proletaria, fomentando così discordie e scissioni, e contro quegli pseudo-dottrinari del massimalismo i quali avanzano l’alibi della equivalenza di ogni governo per sottrarsi all’impegno della lotta concreta, quotidiana.
Ma il nemico principale è il fascismo. Uomini e partiti si qualificheranno solo su questo terreno.
Da questa intuizione nasce la politica di Matteotti. Il fascismo va combattuto nel segno dell’antifascismo unificando i socialisti, ed intorno ad essi il proletariato, stringendo alleanze con quelle correnti democratiche le quali siano in grado di intendere che gli interessi del movimento operaio coincidono pienamente, in questa fase, con quelli generali della nazione e con quelli perenni della civiltà.

Matteotti fu il primo a denunciare alla Camera, all’inizio del 1921, il grave pericolo delle squadre d’azione fasciste, che manganellavano e uccidevano i loro avversari ed incendiavano le Camere del lavoro, le cooperative, le sedi dei giornali di sinistra.
Impegnato nel movimento cooperativo, negli enti locali, nella difesa delle Camere del lavoro, Matteotti rappresentava per la sua giovane età e preparazione una grande speranza per il movimento socialista italiano.
Un episodio lo descrive molto bene. Durante l’infausto congresso di Livorno, quello della scissione comunista del 1921, avuta notizia che la Camera del lavoro di Ferrara era stata assaltata dalle squadre fasciste, abbandona il congresso per recarsi a portare a quei lavoratori la propria solidarietà.
Mi piace ricordare che Piero Gobetti, il quale aveva incontrato Matteotti pochi mesi prima dell’agguato assassino, ne serberà un incancellabile ricordo, e ne traccerà poi un lampeggiante ritratto. Critico spesso spietato delle insufficienze e delle contraddizioni socialiste, egli non dimenticava che Matteotti era stato il solo socialista che aveva capito tutto della situazione politica del tempo. Le conseguenze irreparabili della scissione di Livorno per il movimento operaio, il varco aperto al movimento delle camicie nere, il carattere di classe del fascismo ma al servizio di una ideologia moderna, spregiudicata, esasperata. Lo stesso presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti ricorda: Matteotti aveva l’anima di un apostolo e la serenità di uno studioso. Io ammiravo il suo fervore di ricerche, la sua instancabile attività. Non avevamo sempre le stesse idee ma avevamo la stessa fede profonda nella democrazia.
Matteotti aveva idee chiare sul perché della sconfitta subita dal movimento operaio. Sin dal 1923, in una lettera a Turati, precisò che il Partito Socialista si era screditato con l’appoggio aprioristico alle rivendicazioni di classe e agli eccessi degli scioperi, specie nei servizi pubblici. (Sono questi problemi sui quali si dovrebbe seriamente riflettere ancora oggi.)
Ma il posto del socialismo italiano era in ogni modo ben chiaro nell’internazionale socialista a fianco delle democrazie occidentali – lontano dal comunismo. È per questo che il fascismo ha bisogno di colpire Matteotti, non Turati o Lazzari; non un simbolo ma un capo, il primo capo dell’antifascismo italiano.
Matteotti diventa così un incubo per il fascismo e forse pure per i Savoia.
Egli aveva denunciato su giornali inglesi che per concedere alla società americana Sinclar di fare ricerche petrolifere nel nostro paese, il sottosegretario agli interni Acerbo aveva incassato una pesante tangente e probabilmente altre successivamente. L’aver scoperto la sporca faccenda, possederne la documentazione e prepararsi a denunciarla coinvolgendo non solo il fascismo e Mussolini ma forse anche i Savoia, era diventato estremamente pericoloso per lui.
Il grande merito della battaglia di Matteotti antifascista fin dalla prima ora, senza compromessi e tentennamenti, fu quello di denunciare il fascismo cifre alla mano, documenti alla mano, statistiche documentate: quasi col rigore giuridico, con un piglio non estraneo alla sua esperienza di diritto.
Leonardo Sciascia aggiungerà che Matteotti è stato considerato uno degli oppositori più implacabili del fascismo perché parlava non solo in nome del socialismo ma perché parlava anche in nome del diritto.
Così quando il 30 maggio del 1924 Matteotti alla Camera dei deputati si erge come un antico eroe di fronte alla tirannia – e affronta e denuncia a viso aperto davanti al Parlamento ed al paese i brogli e le violenze delle elezioni – scatta la decisione di farlo uccidere. Nell’ultimo suo intervento, fra continue interruzioni, rivolto al governo egli così conclude:
Voi dichiarate ogni giorno di voler ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione. Non continuate più a tenere la nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperli correggere da sé medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il popolo nostro stava risollevandosi ed educandosi, anche con opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro.
Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, noi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni inficiate dalla violenza.
Fra i rumori degli avversari e gli applausi della sinistra, finito di parlare, Matteotti, mentre si siede al suo scranno – racconterà poi Lussu – dice rivolto ai colleghi: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora tocca a voi preparare il discorso funebre per me.”
Dieci giorni dopo, il 10 giugno, poco dopo le 16.30, Matteotti uscì di casa. Camminava per raggiungere il Lungo Tevere Arnaldo da Brescia quando venne aggredito da 4 o 5 individui, afferrato per le braccia e per le gambe, sollevato di peso e buttato in un’automobile ferma a pochi passi. L’on. Matteotti (confesserà poi Volpi) si dibatteva coraggiosamente, nonostante fosse stretto dagli attentatori sul sedile posteriore della vettura. Infine, immobilizzato, si mise a gridare tentando di dare l’allarme ai passanti, gettando in strada la sua tessera di deputato. Ma gli assassini lo immobilizzarono e il Volpi estrasse il pugnale puntandoglielo al petto e affondando la lama fino al cuore. Pochi secondi dopo Matteotti spirava.
Dopo aver ancora infierito sul morto, cessato il furore, gli attentatori decisero di nascondere alla meglio il cadavere attendendo la notte per rientrare quanto più discretamente possibile a Roma.
Al delitto fece seguito l’infame e finta commedia delle ricerche del cadavere, scoperto alla fine dal cane di un cacciatore nel bosco della Quartarella, vicino a Roma, il 15 agosto.
Spaventato dalla reazione provocata da così ignobile e truce delitto, Mussolini cercò di affermare la sua estraneità all’omicidio, dimenticando che proprio lui, pochi giorni prima, alla Camera dei deputati, rivolto a Matteotti ed all’opposizione aveva gridato: “Voi dovreste ricevere una scarica di piombo nella schiena. Noi siamo ancora in tempo e ve lo proveremo più presto di quello che non pensiate.”
Ed ecco l’assassinio freddamente perpetrato dal regime, ma il sacrificio di Matteotti ha il valore di una battaglia vinta, perché vale a segnare da quel giorno la linea di demarcazione al di là della quale non si indietreggia, a dare vita all’antifascismo come fatto ideale ricco di un suo autonomo contenuto di motivi etico-politici.
Da quel tragico pomeriggio del giugno 1924 la figura di Giacomo Matteotti assurge a simbolo non soltanto del socialismo italiano ma di tutto il mondo; essa rappresenta il simbolo, la bandiera di tutti gli uomini che credono nella libertà, nella democrazia, nella indefettibile giustizia sociale.
Il processo contro gli assassini di Matteotti si svolse a Chieti. Il difensore di tutti e di tutto fu Roberto Farinacci che dichiarò di sedere al banco della difesa più nella sua qualità di segretario del partito fascista che in quella di avvocato. Le condanne furono irrisorie ed in seguito ad una amnistia, l’anno dopo, i condannati tornarono tutti liberi.

Ma risentiamo le parole con le quali Filippo Turati esprimerà tutto il suo immenso dolore per colui che egli amava come figlio, nella commemorazione tenuta nel Parlamento italiano.

Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli ch’io non ho bisogno di nominare, perché il suo nome è nei nostri cuori, evocato in questo momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell’Alpe e dei mari, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive. Egli è un accusatore, un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa: il vindice della nazione che fu depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi che egli amò, che noi amammo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere.
E questo vivo che è qui accanto a me, alla mia destra, ritto nella sua svelta figura di giovane arciere, di cui voi vedete il sorriso, di cui voi scorgete il cipiglio – perché non è un’allucinazione, perché lo vedete, perché non vi inganno, questo vivo, questo superstite, questo ormai immortale e invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e d’Italia; questo vivo, nell’odierno rito, è trasfigurato. È lui ed è tutti. È un individuo ed è una gente.
Invano gli avranno tagliuzzato le membra, invano lo avranno assoggettato allo scempio più atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato.
A che le vane ricerche, o farisei d’ogni stirpe? A che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia? L’avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla. E ridice le parole sante, strozzategli in gola, che sono vere, perché sono l’anima sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo qui a monito dei futuri: Voi uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… La mia idea non muore… I miei bambini si glorieranno del loro padre. I lavoratori benediranno il mio cadavere. Viva il socialismo.

A fatica continua Turati:

Egli non è più soltanto il mio figliuolo prediletto, l’assertore nobile ed alto di un’idea nobilissima, l’unico, l’insostituibile; colui che come Leonida Bissolati nel cremonese, travolto dalla sublime follia dell’amore dei suoi contadini, del suo proletariato polesano, per esso aveva rinunziato indifferente agli agi ed alla tranquillità della vita, ed era diventato esule in patria, presente soltanto dove era l’ora del periglio.
Dall’eccidio di Giacomo Matteotti incomincia la nuova storia d’Italia. A noi un solo compito: esserne degli.
Lasciate, o colleghi, ch’io cessi queste parole che il singhiozzo minaccia di rompere: ch’io mi inginocchi idealmente accanto alla salma del figliolo prediletto, e gli carezzi la fronte e gli chieda perdono della mia, della nostra indegnità e gli dica tutta la gratitudine nostra, la gratitudine di tutto un popolo.

Prima di concludere questo ricordo consentitemi qualche breve considerazione.
Le squadracce fasciste uccisero uomini come don Minzoni, bastonarono fino a provocarne successivamente la morte il liberale Giovanni Amendola e Piero Gobetti. Rinchiusero in carcere fino alla morte il comunista Antonio Gramsci e tanti altri furono bastonati e uccisi o imprigionati dal tribunale speciale, ma l’assassinio freddamente preparato venne usato dal regime particolarmente in due casi, quello di Matteotti e quello di Carlo Rosselli, accomunati non solo dalla vicinanza del ricordo – 9 e 10 giugno – ma anche dal loro modo di pensare la politica. Segnale che proprio l’antifascismo democratico e antitotalitario era il più temuto dai fascisti stessi, per il messaggio che il socialismo democratico ci tramandava.
Non posso chiudere questo nostro incontro senza ricordare le sofferenze che milioni di persone hanno subito durante i tanti, troppo lunghi anni della dittatura fascista e poi i morti a causa della guerra e non ricordare questo giovane combattente ucciso nella impari lotta ingaggiata per sconfiggere il fascismo che, se vinta, avrebbe evitato al popolo italiano tante sofferenze e la guerra.

Abbiamo parlato del politico Matteotti, ma io vorrei ricordare anche l’uomo e credo che lo si possa intravedere meglio attraverso qualche episodio, come quando informato casualmente di una famiglia in miseria in un paese dell’Appennino laziale, scrive alla giovane moglie:

“Quella gente lassù muore di freddo, non hanno una baracca. Bisogna trovare tanto legname da costruzione e poi portarlo subito. Scusa se ti parlo di queste cose, ma ne ho piena la mente. È una cosa orrenda la sorte di quelle creature sotto la neve, così che quasi mi rimorde tutta la dolcezza lieta, la gioia che tu mi dai.”

Dopo la sua morte si apprenderà anche che Matteotti versava la propria indennità parlamentare ad un orfanotrofio.
La sua passione, la sia dedizione alla causa per la quale si era impegnato la si riscontra in una lettera scritta in risposta all’offerta di un incarico universitario fattagli un mese prima della morte (anche con la speranza di salvargli la vita) dall’eminente prof. Luigi Lucchini, nella quale Matteotti scrive:

Illustre professore,
ritrovo qui la sua lettera gentile e non so come ringraziarla.
Purtroppo non vedo prossimo il tempo nel quale tornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono, secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna.
Ma quando io potrò dedicare ancora qualche tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e l’atto cortese che dal maestro mi sono venuti nei momenti più difficili.
Roma, 10 maggio 1924

Un mese dopo, l’uomo che secondo Saragat incarnava il socialismo dal volto umano, veniva assassinato. Aveva 39 anni, lasciava nella disperazione la giovane moglie sposata nel 1916 e tre piccoli bambini.
La protervia fascista si rivelò ancora quattordici anni dopo, nel 1938, quando la moglie Velia muore a 48 anni. Al funerale sono sequestrati i due mazzi di fiori deposti dai figli sulla bara della madre: rossi, verbalizza il solerte poliziotto.
Ma nella notte alcune contadine di Fratta intrecciano la cancellata in ferro della tomba con garofani rossi, come quelli che per tanti anni sono stati nel buio delle notti sempre sostituiti da mani ignote.
La tanto amata e tenera moglie Velia Ruffo era la sorella del grande baritono Titta Ruffo che volle portare a spalla il feretro del cognato al funerale; dopo di che partì per l’America e non ritornò più in Italia, come Arturo Toscanini, se non dopo la fine della guerra.
Fra i tanti politici, scrittori, poeti che scriveranno del socialista Matteotti, ricorderò soltanto quanto scrisse, dalla Spagna con dolore, il grande poeta spagnolo Miguel de Unamuno, a quel tempo confinato a Fuerte Ventura, nelle Canarie.

O mio fratello! Insieme ci
ergemmo contro l’ignominia.
Tu irrorasti del tuo nobil sangue
l’inaridito cuore del popol tuo:
e da quel cuore, dal tuo sangue,
adesso fioriscono i virgulti
imperituri. Tu sei l’Italia, o mio
grande fratello…
No, tu sei molto di più: sei la
protesta
dell’anima del mondo. Ave,
fratello. La Madre del tribuno
spento oscenamente, v’impone di
rendere – poiché nessuno le renderà
più mai il cuore del suo cuore
o trogloditi, la dignità, la libertà,
l’onore
alle nazioni che poneste a sacco.

Da quel lontano 10 giugno del 1924 il ricordo dell’assassinio di Matteotti rimarrà chiuso nel cuore di tanti uomini e terrà sempre viva in essi la speranza di ritrovare la libertà.
Quella memoria che i vecchi antifascisti avevano tenuta viva, fece sì che dopo l’8 settembre 1943 tanti giovani si unissero a loro e dessero inizio a quella eroica, tragica e luminosa stagione di grande generosità chiamata Resistenza.
Quella resistenza italiana che unitamente a quella europea, con l’aiuto dei popoli liberi di tutto il mondo combatté e sconfisse il cancro del nazifascismo che stava per soffocare sotto un gelido vento di morte tutti i popoli d’Europa e riconquistò per gli italiani quella libertà e dignità che hanno consentito a noi vivere da oltre cinquant’anni in pace e da uomini liberi.
Dalla vita e dalla morte di Matteotti ognuno dovrebbe trarre insegnamento. Come con qualche rimorso ammette lo storico Gaetano Salvemini quando scriveva:

“Detestavo i fascisti e non avevo fiducia negli antifascisti. Me ne stavo tra i miei libri, risoluto a non entrare più in politica… ma quando lui fu ucciso mi sentii in parte colpevole. Lui aveva fatto tutto il suo dovere e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini.”

Ma una nota di speranza e di fiducia torna andando col pensiero a quelle gentili o callose mani che per tanti anni hanno portato, nelle oscure  e nebbiose notti del Polesine, un garofano rosso sul cancello della cappella del piccolo cimitero di Fratta ove riposa un uomo diventato un simbolo per tutti gli uomini, il simbolo della libertà: Giacomo Matteotti.