Cremona, 26 aprile 1945. Gli eventi resistenziali a San Luca fra storia e ipotesi diverse

di Ennio Serventi

Il 26 aprile 1945
ardor pugnace d’adolescenza
stroncò sul fragile stelo
ATTILIO BARBIERI
studente liceale di anni 16
DANILO DE MARCHI
operaio di anni 18
BERNARDINO ZELIOLI
studente universitario di anni 18
falciati da mitraglia tedesca

la libertà frutto di sangue
è sacra*

*la rilettura di questa riga è stata resa possibile dal volontario intervento di restauro effettuato da Graziano Bertoldi

Tutti gli anni, nel giorno che ricorda la Liberazione dal fascismo, il corteo parte dal sagrato della chiesa di san Luca all’angolo con viale Trento Trieste. Per recarsi in piazza del Comune la sfilata potrebbe partire da un qualsiasi altro angolo di strada, dallo slargo davanti alla AEM o da piazza Risorgimento. La scelta di quel luogo non è casuale: sempre quell’appuntamento rievoca e si tramuta in un rinnovato omaggio ai ragazzi “falciati da mitraglia tedesca” ricordati sulla lapide infissa al muro del Tempietto del Cristo Risorto.

L’opera di un non conosciuto disattento restauratore, non è valsa, nel tempo, a sconsacrare quel luogo di memoria e quel che rimane di quella che fu la frase compiuta incisa sulla lapide, involontariamente resa tronca, sembra voler lasciare alla spiritualità individuale di quanti a questa si avvicinano l’aggettivazione di quella libertà “frutto di sangue” che l’incisione evoca.

Ignoto rimane l’estensore di quelle poche parole incise sul marmo che ancora fondono il cordoglio con l’immagine poetica della letteratura, quando rievoca la morte di un giovane. Il paragone con il fiore reciso sul fragile stelo divelto dall’aratro, in questo caso appropriato come non mai, ci riporta alla trasfigurazione del corpo nel suo massimo splendore, ridotto a cosa anonima da una forza violenta. Nel linguaggio popolare la trasfigurazione della morte di un giovane è espressa nella frase  “nel fiore degli anni” che si ritrova in molte iscrizioni cimiteriali, ma è ancora il poeta a identificare con il colore di un fiore, in questo caso il papavero, il sangue versato dal giovane incorso nella morte brutale.

Penso sempre che a quella lapide andrebbe aggiunto un nome, forse dimenticato o volutamente non messo. Antonio Rossoni, nato a Brignano Gera d’Adda (BG), non era un padre Barnabita, come erroneamente scritto da Armando Parlato in “La Resistenza cremonese” alla nota 81, errore successivamente ripreso in “Pietre della Memoria”, ma un laico con qualifica di “sguattero”: svolgeva mansioni lavorative al convento. In una nota conservata dai padri Barnabiti (non nella “ Cronaca”) risulta ininterrottamente presente a Cremona dal 1935 al 1943. Assente nel 1944, è annoverato fra i presenti nel 1945. Qui finiscono le sue tracce al convento. Sempre dalla citata nota 81 apprendiamo che all’ospedale “per ferite multiple da arma da fuoco” vi “entrò il 26.4.1945 e decedette alle 18,30 dello stesso giorno”, quello dell’insurrezione. Probabilmente ferito nella stessa strada dove per tanti anni aveva abitato, certamente nelle stesse ore dello stesso giorno di quando colpiti da “mitraglia” o da “fucili mitragliatori” furono feriti i ragazzi ricordati sulla lapide. Ignoto è il nome di chi, trovandolo ferito, gli prestò le prime cure, di come lo trasportò all’ospedale. Per una serie di circostanze è difficile non pensare a padre Carbonaro che, come è ricordato, in quel giorno si prodigò ripetutamente nell’opera di soccorso ai feriti negli scontri ricordati come “quelli di san Luca”. Potrebbe essere stato con lui padre Giuseppe Granata, il barnabita antifascista costretto a fuggire da Lodi e rifugiatosi nella casa di Cremona, ma di questo nella “Cronaca” del convento non c’è traccia. Non si può non chiedersi il perché Antonio Rossoni, vissuto ininterrottamente per nove anni nella casa dei padri Barnabiti in viale Trento Trieste 1 semplicemente scompare il 26 aprile 1945.

Antonio Rossoni è ricordato sul quotidiano “Fronte Democratico” del 29 aprile 1945. Il suo nome compare insieme a quelli di sedici caduti nei giorni della Liberazione tra i quali sono anche i nomi dei giovani ricordati sulla lapide nei pressi di san Luca. Dal “Palazzo dei Militi”, scrive il giornale del tempo, le “bare vennero portate a braccia dai compagni di lotta e di sacrificio” fino alla Cattedrale. Le sue furono esequie di un partigiano fra partigiani, officiate dal Vescovo, salutate “da una salve di colpi che resero loro l’estremo saluto dei compagni”. I partigiani vennero, salvo quelli di cui le rispettive famiglie vollero inumar le spoglie in luoghi diversi, sepolti nel vecchio “campo militare”: Rossoni nella fossa n° 55 e De Marchi, uno dei ragazzi di san Luca, nella fossa 53. Il 22 novembre 1967 le spoglie di Rossoni, che per l’età avanzata non era certo un appartenente alle Forze Armate, furono traslate nell’ossario militare n° 6 del comparto 4 dove si trovano tutt’ora. Sul registro dei sepolti al cimitero per lui non figura la causa della morte né la qualifica “partigiano” con l’indicazione della formazione di appartenenza come per gli altri. Non militare, non partigiano, la sua inumazione finale avrebbe dovuto essere fra i caduti civili per cause belliche, insieme ai morti per il bombardamento del 10 luglio 1944 o in altre simili cause.

Alla nota 81, riportata più sopra, Armando Parlato ne indica la causa della morte ma non il luogo del ferimento. Il nome di Rossoni non è inciso sulla lapide sotto il portico del Comune e fra le schede dei partigiani caduti conservate nell’archivio dell’ANPI, che a suo tempo curò la definizione di molte delle pratiche di riconoscimento, il suo nome non c’è. Evidentemente, per negligenza o opportunità, nessuno si occupò di inoltrare alla Commissione Militare Regionale Lombarda la domanda di riconoscimento partigiano o, se inoltrata, può essere stata respinta per l’insufficienza dei requisiti. Manca una qualsiasi documentazione in proposito.

Se e come il Rossoni fu coinvolto nei fatti di san Luca si possono azzardare solo ipotesi. Complice il tempo trascorso, il luogo dove è affissa la lapide ed una ricostruzione storiografica contraddittoria, la stessa cosa si può dire per i giovani ricordati. Né la storiografia né la lapide sopra richiamata legano la vicenda di Antonio Rossoni a quella dei giovani da questa ricordati. Eppure i comuni luoghi frequentati, la concomitanza temporale del ferimento e del successivo ricovero ospedaliero, forniscono più di un elemento ad una riconsiderazione che unisca i due eventi.

Salvo la nota 81 di Armando Parlato, ripresa poi in “Pietre della Memoria” nel 2010, di lui nessuno parlò più, diventando uno dei tanti dimenticati. Di Antonio Rossoni si dimenticarono precocemente perfino i padri Barnabiti.

I feriti alla stazione ed a san Luca seguendo la “Cronaca” Barnabita

Non citato in quella “Cronaca” barnabita, è anche Attilio Barbieri, uno dei tre giovani i cui nomi sono incisi sulla lapide. In un testo che, per quanto attiene all’assistenza ai feriti compilato con ampia puntigliosità descrittiva, stupiscono le due omissioni, quella di Rossoni e quella di Barbieri, almeno per un caso forse frutto d’incolpevole temporanea distrazione.

“Cronaca” dei padri Barnabiti del 26 aprile 1945 descrive il ferimento di Bernardino Zelioli alla stazione ferroviaria, l’accorrere di padre Carbonaro, il prestare al ferito le prime cure ed il suo portarlo all’ospedale dove poi morirà. La “Cronaca” poi delinea il trasporto “in casa nostra di un altro giovane già alunno dell’oratorio, Danilo De Marchi, orrendamente ferito […] viene pure trasportato in casa nostra ed assistito da padre Carbonaro un altro giovinetto Grisoli”. Seguendo questo fondamentale documento i padri Barnabiti non prestarono assistenza al giovane Barbieri il che fa supporre che il ferimento del giovane avvenne in altro luogo o circostanza. Parlato lo colloca tra i feriti nei pressi del convento e non è il solo in questo. Altre ricostruzioni collocano il ferimento del giovane in luoghi diversi.

La “Cronaca” del convento di quel 26 aprile 1945 più che trasmetterci, nella loro dinamicità, come si sono svolti i fatti che noi ricordiamo come quelli di “san Luca”, evidenzia l’opera di soccorso ai feriti fatta dai Padri. Il documento Barnabita ci trasmette, corredandolo eccezionalmente di una stringata descrizione, l’episodio del trasporto all’interno del convento del “giovinetto Grisoli ferito alla spalla ed alla gamba da due tedeschi che vengono fatti prigionieri sul viale Trento Trieste dal P. Carbonaro e dal P. Granata. Tradotti in casa e disarmati (i due tedeschi) rimangono per tutto il giorno in una sala sempre però bene assistiti”. L’episodio della cattura dei due tedeschi armati effettuata dai due Padri che, si è portati a credere, non portavano armi, induce a qualche riflessione. Appare dubbio che i due tedeschi, armati e reduci dall’aver ferito il giovane Grisoli, si siano lasciati fare “prigionieri” dai due padri Barnabiti. Era il pomeriggio del 26 aprile 1945, vigilia della resa dei conti; più veritiera appare l’ipotesi che i soldati siano stati convinti dai Barnabiti dell’inutilità di continuare a combattere ed uccidere e quindi abbiano accettato di consegnare loro le armi in cambio della promessa di assistenza e protezione, promessa che, se fatta, i religiosi sicuramente onorarono. Dei due tedeschi e delle armi non è detto quale fu la sorte successiva.

La “Cronaca” Barnabita, dal giorno 26 al giorno 29 compreso, descrive sommariamente gli avvenimenti resistenziali, cittadini e non. A posteriori possiamo dire che non sempre le esposizioni reggono al confronto con lo svolgersi di fatti storicamente accertati, e alcune attribuzioni e partecipazioni appaiano enfaticamente forzate. Non è assente, nella descrizione e nelle ripetute citazioni di nomi, una propensione elitaria. Non manca un accenno alla “plebaglia” inneggiante all’arresto di fascisti. Nell’auspicio “che tutto rientri nella normalità e la giustizia sia affidata alla legge” traspare una velata critica alle sentenze emesse dal tribunale del C.V.L..

Apprendiamo che il convento, dopo la Liberazione, ospitò la prima sede della Democrazia Cristiana in “una nostra sala prospiciente il viale Trento Trieste”. Successivamente, per interessamento di padre Carbonaro, il partito trovò definitiva sede nel pieno centro cittadino in via Verdi 3. Vi è anche una esplicita ed orgogliosa rivendicazione di avere contribuito “pubblicamente” all’organizzazione del Partito della Democrazia Cristiana.

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