Giuseppe Robolotti

Commemorazione del Gen. Giuseppe Robolotti
Discorso pronunciato il 14 dicembre 2002 nella Sala dei Quadri di Palazzo Comunale Cremona
Mario Coppetti (Presidente ANPI Cremona)

Signore, Signori, Autorità
Se a qualcuno di voi, dopo aver ammirato verso il tramonto la marmorea facciata della chiesa di San Pietro, resa ancor più luminosa dai riflessi del sole cadente, capitasse, come a me, di prendere sulla destra, dopo il vicolo San Marco, avrebbe da percorrere la breve strada della Colomba.
Come le nostre vecchie piccole strade, questa conserva ancora la pavimentazione in acciottolato dove, soprattutto nelle parti meno calpestate, si vedeva un tempo l’erba che spuntava fra un ciottolo e l’altro formando come dei tappetini verdi.
Dai bassi muretti che cingevano tanti giardini, piegavano sulla via rami di alberi di frutta o di ornamento, come ancora oggi si può vedere sul lato destro, prima di giungere allo slargo verde che trovasi dietro l’abside della chiesa.
Alzando lo sguardo verso la casa posta all’angolo con la via E. Sacchi scorgerà una lapide di marmo bianco il cui testo dettato da un insigne letterato, il nostro concittadino Prof. Alfredo Galletti, dice:

GIUSEPPE ROBOLOTTI
Generale dell’Esercito Italiano, tempratosi in tre guerre all’ardimento ed al sacrificio, giunto all’età che ai prodi suole concedere meritato riposo, posto a scegliere tra servaggio e libertà scelse la libertà ed affrontò la morte.

Ho voluto allora approfondire la personalità, il carattere, le motivazioni che spinsero questo ufficiale ad una scelta di vita così difficile, così pericolosa, ed oggi noi vogliamo qui ricordare e testimoniare come Associazione Nazionale Partigiani d’Italia il comportamento di questo ufficiale che, come altri (fra i tanti le medaglie d’oro fratelli DI-DIO) si sono trovati senza chiare direttive per colpa  di comandi inetti e di un Re fellone a dover decidere personalmente cosa fare.
Pur coscienti di rischiare molto, scelsero di continuare a combattere per la libertà d’Italia – contro l’invasore tedesco e contro il fascismo responsabili della guerra. Lo fecero a fianco di tanti altri giovani saliti in montagna per mostrare al mondo che anche tanti italiani volevano combattere per abbattere le nefaste dittature fasciste.
L’Associazione Partigiani è orgogliosa di ricordare il cremonese Gen. Robolotti e con lui tutti gli altri ufficiali e soldati che a costo di grandi pericoli ed in particolare a costo della vita scelsero di resistere eroicamente, come a Cefalonia, o di continuare a combattere assieme ai Partigiani ed alle truppe alleate e ai tanti altri che piuttosto di collaborare con la repubblica sociale scelsero la lunga penosa prigionia in Germania.
Chi era il Gen. Robolotti? A sentire questo nome credo che quasi tutti i cremonesi vadano con la mente a Francesco Robolotti a cui da molti anni Cremona ha dedicato una nota via del centro cittadino. Questi era lo zio medico, nato agli inizi del 1800 che aderì con entusiasmo alla giovane Italia. Prima esule in Francia, nel 1834 venne arrestato a Milano per trame rivoluzionarie, insieme a quattro compagni condannati a morte e poi inviati allo Spielberg – egli verrà invece  carcerato nel 1835 nel carcere di Mantova – Francesco Robolotti avrà una parte  rilevante come medico nell’assistenza alle migliaia di feriti che affluirono a Cremona dopo la battaglia di Solferino e San Martino.
Grande opera di pietà; basti pensare che furono qui ricoverati 9656 militari (dei quali 7553 francesi) e vi furono 659 morti di cui 337 soldati francesi. L’assistenza medica profusa dai cremonesi, medici ed infermieri, ebbe l’alto elogio del Re e dell’Autorità militare francese e strappò commosse lodi  anche al famoso romanziere Alessandro Dumas.
Del Gen. Giuseppe Robolotti, cresciuto in pieno clima risorgimentale in una famiglia dove i valori della Patria e della libertà erano tanto vivi (il padre fu un garibaldino), si possono capire i motivi che lo spinsero ad una scelta che per lui non poteva che essere la stessa che era stata del padre e dello zio. Giuseppe nasce proprio nella casa, ove la lapide lo ricorda, il 27 dicembre del 1885 e trascorre l’infanzia e l’adolescenza fra i cortili e i vicoli di questo modesto, vecchio, caro quartiere. Frequenta la scuola fino al liceo classico, dopo di che la passione per la vita militare, come scrive Luciano Dacquati, ebbe il sopravvento, ed il giovane Giuseppe entrò come allievo alla Accademia di Modena, uscendone Ufficiale in Servizio permanente effettivo.
La carriera delle armi occupò quasi per intero la sua vita, tanto che quasi desta meraviglia il fatto che trovasse il tempo di sposarsi; la donna prescelta si chiamava Elvira Dal Collo. Il matrimonio si rivelò felice e dalla unione nacquero tre figli, Giovanni, Eugenio e Franco. Giuseppe Robolotti prese parte alla sua prima campagna militare nel 1911, durante la guerra Italo-Turca, conquistandosi una citazione per il coraggio mostrato durante la battaglia di Zanzur in Libia.
Fu l’inizio di una lunga serie: Robolotti poi prese parte alla Grande Guerra, guadagnandosi una medaglia d’argento sul campo.
La sua carriera procedeva magnificamente: a 32 anni era Maggiore, nel 1926 veniva promosso Tenente Colonnello e 10 anni dopo era Colonnello. Nel 1938 veniva assegnato al Comando di Corpo d’Armata di Milano per incarichi speciali ed un anno dopo era trasferito a Bergamo come Comandante delle truppe al deposito del 78° Fanteria. Collocato nella riserva nel 1940, immediatamente veniva insignito dei galloni di Generale di Brigata.
La guerra era in pieno svolgimento e l’Esercito italiano abbisognava di uomini. Era inevitabile che prima o poi anche per Giuseppe Robolotti arrivasse il richiamo. Infatti nel giugno del 1942 fu destinato al comando della zona militare di Trieste, quindi fu nominato comandante della Piazza Militare di Fiume e, l’8 aprile 1943, Comandante dell’intera zona militare di Trieste.
L’armistizio dell’8 settembre lo trovò appunto a Trieste; vista inutile ogni resistenza opposta ai margini della città contro le truppe tedesche che intendevano occuparla, il Generale si ritirò dapprima a Venezia e poi a Milano.
Appena giunto nella metropoli lombarda, protetto da una certa sicurezza personale (era infatti ricercato attivamente dai tedeschi a Trieste a causa della resistenza opposta), egli si mise immediatamente in contatto con il Comitato di Liberazione.
Subito la sua figura si impose vincendo la logica diffidenza dei resistenti milanesi, in capo a pochi giorni era entrato in perfetta collaborazione con il Gen. Bortolo Zambon, incaricato militare del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
In questo breve periodo prestava servizio presso la Direzione della Soc. Montecatini di Milano. Ma quando giunse l’ordine del Governo della Repubblica di Salò di presentarsi agli organi dell’Esercito Repubblicano, Robolotti si fece porre in aspettativa, altrimenti avrebbe dovuto prestare giuramento alla Repubblica Sociale.
Nel frattempo non abbandonava la sua attività clandestina. Anzi, nel mese di ottobre del 1943, aveva avuto l’incarico dal Gen. Zambon di organizzare il CLN tra i militari, compito al quale Robolotti si dedicava con ogni energia. Prendeva continuamente contatto con Ufficiali e Sottufficiali sbandati, assistendoli moralmente e, se occorreva, anche finanziariamente.
In questo periodo trovò anche il tempo di  organizzare un gruppo informativo che si chiamava “Micheli”: questo era infatti il nome col quale Robolotti era conosciuto negli ambienti del CLN.
Viste le splendide capacità organizzative e realizzatrici del cremonese, il Generale Zambon trovò logico affidargli un compito d’importanza capitale quale era il Comando Clandestino della Piazza di Milano.
Ciò comportava, tra l’altro, l’impegno di preparare un piano di difesa della città. Frattanto i comandi politici e militari della Repubblica di Salò cominciavano a dubitare dell’attività di Robolotti, che era costretto a peregrinare di casa in casa per sottrarsi alla cattura.
L’allargarsi della sua influenza e delle sue conoscenze rendeva sempre più precaria la sua posizione e Robolotti doveva ben presto accorgersi che una lotta clandestina diventa impossibile a sostenersi se si conoscono troppe persone. Infatti tra gli Ufficiali che collaboravano con il Generale vi era il Colonnello Marini, il quale a sua volta era in contatto con un tale Bianchi, sedicente Capitano di una banda operante nei presi di Como.
Questo Bianchi che in realtà era un agente di informazione repubblichino, era riuscito a catturare una radio clandestina di Genova (Radio “otto”) e, mediante questa, a fare trasmettere da Radio Londra comunicati che gli davano libero accesso a tutti gli ambienti della Resistenza.
Infatti il Col. Marini, lontanissimo dal sospetto che il Capitano Bianchi potesse essere una spia, lo presentò a Robolotti ed a Zambon, sia pure rivelando solo i nomi di battaglia “Micheli” e “Ariani”. Bianchi ed i due generali parlano della possibilità di agganciare la banda di Bianchi al CLNAI e fissarono un nuovo appuntamento per il 25 maggio.
Ma alle undici del 25 maggio, in Via Buonarroti, i generali Robolotti e Zambon non trovarono ad attenderli il “Capitano Bianchi” ma uno schieramento di agenti fatti venire da Como, da Bergamo e da Cremona che non faticarono troppo per catturarli.
Nello stesso momento anche la moglie, un figlio ed alcuni amici di Robolotti venivano tratti in arresto. Tutti i fermati vennero trasferiti all’Albergo Regina di trista fama.
I rapporti di accusa erano compilati dal Commissario di Pubblica Sicurezza Dannoli. Il Dott. Ugo, addetto alle SS germaniche, si dichiarava pronto a smontare il “grave castello di accuse”.
Inoltre, di comune accordo con i secondini (italiani) del carcere, si adoperava perché i detenuti (che erano stati rinchiusi in celle separate) potessero venire in comunicazione sì da accordarsi per una linea unitaria di difesa.
Per quindici giorni si protrasse l’inchiesta, al termine della quale il Dott. Ugo poteva comunicare che aveva raggiunto il suo scopo, che cioè aveva smontato tutte le accuse che pesavano sugli indiziati.
Tuttavia il comando tedesco non si dette per vinto e, pur ridando la libertà a tutti gli arrestati, trattenne in carcere i due Generali unitamente al Colonnello Marini.
Anche in carcere Robolotti trovò il modo di giovare alla sua causa, smascherando un sedicente “Generale della Rovere” che veniva trattato da tutti con il massimo riguardo e che si proclamava Comandante del Corpo d’Armata di Trieste, all’8 settembre.
Per Robolotti, che era veramente stato a Trieste, non fu difficile scoprire che in realtà quell’individuo non era altro che una spia del tedeschi.
II 29 giugno del 1944 Robolotti veniva trasferito al campo di concentramento di Fossoli (Carpi) dove ricevette il numero di matricola 2411. La sera del 11 luglio veniva compreso in una lista di matricole destinate al trasferimento.
In realtà si trattava di una esecuzione di massa per rappresaglia.
Il Generale Robolotti, appena saputo del “trasferimento”, non si fece illusioni. Un uomo della sua esperienza non poteva certo credere a ciò che gli era stato detto ed il suo coraggio gli vietava di nascondere a se stesso la cruda realtà. Così egli trovava il modo dire ad un amico: “Cosa vuoi, la Patria mi vuole”.
E la stessa sera dell’11 luglio scriveva l’ultima lettera alla moglie: “è giunto l’ordine di marcia. Bacio i figlioli e bacio fortemente te con tutta la mia tenerezza. Ho fede, abbila tu pure.”
Il 12 luglio del 1944, sul terreno del poligono di Cibeno, nel Comune di Carpi, avveniva uno dei più brutali episodi di rappresaglia tedesca contro le forze della Resistenza: una settantina di detenuti politici del campo di concentramento di Fossoli venivano fucilati, senza che nella zona fosse accaduto alcun attentato contro le forze tedesche.
Per molti anni non si seppe capire il perché di tanta inutile ferocia. Poi poco alla volta, la verità venne a galla.
Dopo l’attentato di Via Rasella, a Roma, il Generale tedesco Kesserling aveva inviato l’ordine a tutti i comandi tedeschi della penisola che per ogni tedesco caduto in seguito ad attentati, sarebbero dovuti essere fucilati 10 detenuti già condannati a morte.
Era la tragica regola del “dieci per uno” che fu applicata con spietata rigidità in ogni occasione. A Genova infatti in seguito ad un attentato contro il cinema Odeon furono fucilati 59 detenuti politici delle carceri Marassi.
Questo avveniva il 19 maggio 1944 ed è passato alla storia col nome di “massacro del Turchino”, e accadeva appena un mese dopo la strage del monastero della Benedicta ove vennero trucidati 147 partigiani. Scusate la breve parentesi ma non posso tacere: è con grande tristezza e profondo sdegno che abbiamo appreso che il mese scorso è stato devastato il sacrario che ricorda i 206 fucilati e i 400 resistenti del Turchino deportati in Germania.
La violenza delle reazione Partigiana convinceva il locale comando tedesco che la città era una polveriera, pronta ad esplodere ad ogni istante sotto qualsiasi provocazione. Perciò quando, in un bar di Via del Campo, il 25 giugno altri sei militi nazisti (della Kriegsmarine, fanteria di marina particolarmente odiata dai genovesi) lasciarono la vita per lo scoppio di un candelotto di tritolo, gli alti Ufficiali germanici restarono indecisi sul da farsi, non avendo il coraggio di applicare la regola del dieci per uno.
Sapevano che agendo secondo gli ordini ricevuti avrebbero corso il rischio di una rivolta popolare e preferirono prendere tempo.
Probabilmente a deciderli fu il ferimento di un Ufficiale avvenuto il 5 luglio. Il conto era presto fatto: sei tedeschi uccisi più un ufficiale ferito facevano settanta Italiani da fucilare.
Tuttavia il Comandante tedesco delle SS di Genova, Friedrich Engel – che attualmente coltiva con cura i fiori del suo giardino ad Amburgo, dopo la condanna all’ergastolo comminatagli dal Tribunale militare di Torino nel 1999 – non volle rompere definitivamente con la città e risparmiò i carcerati di Marassi, preferendo girare Perdine di esecuzione al lager di Fossoli, che veniva reputato abbastanza lontano perché la notizia dell’esecuzione di massa non arrivasse fino a Genova. Ecco il motivo dell’eccidio del 12 luglio a Fossoli.
Tuttavia per salvare la faccia, a Genova fu diffuso un comunicato, in data 6 luglio, in cui si dava per già avvenuta la rappresaglia.
Nel campo di concentramento di Fossoli, frattanto si capisce che qualcosa di terribile è nell’aria: ne è la prova l’irrigidimento della sorveglianza e l’inconsueto via vai di auto della Gestapo.
Infatti l’11 luglio, verso il tramonto, il Sergente Haage, addetto alla sorveglianza dei detenuti, legge un elenco di settanta uomini che devono preparare i loro bagagli e radunarsi nella baracca 17 per “essere trasferiti”.
All’alba 10 ebrei, armati di picconi e badili, vengono fatti partire per ignota destinazione: qualcuno nel campo comincia ad intuire la verità. è un sospetto che va facendosi sempre più strada, anche se i tedeschi, per mascherare la realtà, fingono di caricare, assieme ai 70 italiani, anche i loro bagagli.
Il trasferimento, avvenuto con quattro autocarri militari, termina al poligono di Carpi.
Gli ebrei hanno già scavato la fossa comune. Un primo gruppo di prigionieri viene fatto inginocchiare sull’orlo di essa ed un Ufficiale li fredda con un colpo di pistola alla nuca. Questi sono morti senza neppure sapere il perché.
Un secondo gruppo, radunato in una baracca, viene informato che sarà fucilato perché sono stati uccisi sette tedeschi a Genova e pertanto si esercitava la rappresaglia del dieci per uno.
Poi i condannati vengono fatti avanzare a coppie ed uccisi a scariche di mitra. Quando è il turno di Mario Fasoli e dell’Avv. Jemina, si verifica un miracolo: i due con la forza della disperazione si scagliano contro i tedeschi, riescono a strappare ad essi alcune armi e fuggono attraverso i campi circostanti: non verranno più ripresi.
L’ultimo gruppo di prigionieri viene allora ammanettato perché l’episodio non debba ripetersi e l’esecuzione viene portata a termine rapidamente. Fra i 68 italiani fucilati vi sono due cremonesi: il gen. Giuseppe Robolotti di 59 anni ed Antonio Martinelli, nato a Castelverde.
Al campo di Fossoli i rimasti intuiscono rapidamente la verità: alcuni indizi sono fin troppo chiari, come l’isolamento degli ebrei partiti di mattina, il ritorno dei bagagli delle vittime, gli anelli strappati alle vittime stesse e sfoggiati dalle SS.
La sera del 13 luglio la notizia della esecuzione diventa ufficiale.
Una settimana dopo il lager smobilitava. Tra le baracche abbandonate non rimaneva che l’ombra del ricordo delle barbarie di una rappresaglia feroce ed insensata.
A dare la misura fino a dove era giunto l’odio bestiale e l’aberrante orgoglio di una ritenuta superiorità razziale teutonica, sta la blasfema risposta del comandante tedesco che, al Vescovo di Carpi recatesi al campo per impartire la benedizione alle salme, rispose: “Là dove noi non perdoniamo, neppure Iddio perdona”.
Abbiamo voluto ricordare, a distanza di quasi 60 anni dalla morte, questo nostro concittadino che ha sacrificato la vita per lo stesso ideale di pace, di libertà, di giustizia che fu anche quello del padre, coraggioso garibaldino, e dello zio Francesco; e quando rivedremo quella lapide riandremo con il pensiero a quel soldato che da bambino giocava nelle piccole vie di questo nostro antico quartiere di San Pietro. Ci fermeremo un istante mandando un memore commosso saluto a lui e a tutti quelli che come lui hanno volontariamente lottato e dato la vita perché gli italiani avessero giustizia e libertà.
Consentite a me che ho vissuto e partecipato alla vita di quei nefasti e poi tragici tempi, un caldo invito a non dimenticare il nostro passato perché questo sia di guida e di monito per l’avvenire del nostro Paese.
Oggi per fortuna la situazione non richiede a nessuno di noi scelte difficili, né atti di eroismo, se vogliamo però essere degni di questi patrioti che tutto hanno sacrificato per l’Italia, tutti noi dobbiamo agire sempre con onestà e spirito di solidarietà umana e sociale, cercando – come scrisse Camus – di servire quegli ideali senza i quali la nostra vita non varrebbe la pena di essere vissuta.