Renato Campi

Commemorazione di Renato Campi in occasione del 60° della sua fucilazione (16 febbraio 1945)
Sala dei Quadri di Palazzo Comunale, 19 febbraio 2005

Intervento del prof. Mario Coppetti

Signor Sindaco, Autorità, Cittadini,
l’Associazione Partigiani di Cremona che ho l’onore di rappresentare, in questi ultimi anni ha voluto ricordare fatti rilevanti avvenuti nella nostra città, come quelli del 9 settembre del 1943 che videro cadere 30 persone fra militari e civili uniti nel tentativo vano ed eroico di opporsi alle soverchianti forze tedesche che dietro ai loro panzer marciavano per occupare la nostra città.
Inoltre abbiamo voluto ricordare una figura di spicco, il generale Giuseppe Robolotti, nostro concittadino, che schieratosi volontariamente (come lo zio Francesco, cospiratore del Risorgimento) con i combattenti per la libertà, fu arrestato a Milano e venne poi trasferito nel campo di Fossoli, dove il 12 luglio del 1944 venne fucilato, con altri 80 arrestati, per rappresaglia di fatti avvenuti a Genova. Lasciava la moglie e 3 figli.
Abbiamo simbolicamente ricordato nella nobile figura di Giacomo Matteotti tutti quelli che si sono opposti al fascismo fin dal lontano 1922.
Esemplare figura di socialista democratico che ebbe il coraggio di denunciare a viso aperto in Parlamento le violenze ed i brogli compiuti dai fascisti. A seguito di questa sfida, dieci giorni dopo, Matteotti veniva barbaramente assassinato.
Nel centenario della nascita abbiamo ricordato un altro martire del fascismo, Carlo Rosselli, fondatore del movimento Giustizia e Libertà, ucciso insieme al fratello Nello nei boschi di Bagnole sur l’Orne in Francia.
Aldo, il maggiore dei tre fratelli, medaglia d’argento, era morto combattendo sulle montagne della Carnia nel 1916.
È un ricordo molto intenso, perché ho conosciuto personalmente Carlo Rosselli. Ero stato assieme a lui in Giustizia e Libertà solo pochi giorni prima che i cagoulard, su commissione di Mussolini, li uccidessero, nascondendo nel bosco i cadaveri come era avvenuto per Matteotti.
In un’altra occasione ho cercato di rievocare come era la vita fra le due guerre da noi e di ricordare quei nostri concittadini che preferirono sopportare anche gravi sacrifici pur di non aderire al fascismo dominante e cercarono di tenere viva la speranza in un ritorno alla libertà.
L’anno scorso abbiamo voluto ricordare il tenente Francesco Vitali non soltanto con la parola, ma anche facendo murare una targa sul palazzo Ala Ponzone. Proprio in quel punto egli, combattendo ad armi impari contro le SS naziste lanciate all’occupazione della città, venne ucciso la mattina del 9 settembre 1943.
Tutti questi uomini, questi fatti abbiamo voluto ricordarli perché noi che abbiamo vissuto quei tragici tempi sentiamo il dovere morale di far conoscere quanto dolore e sacrificio è costata agli italiani la riconquista della libertà, che per venti anni era stata loro negata.
L’Anpi ha voluto onorare, offrendogli una targa, anche un prete, don Luisito Bianchi, che con il suo libro “La messa dell’uomo disarmato” ha descritto con grande intensità, serenità e poesia la vita come era stata vissuta dalla nostra gente dal ‘40 al ’45 nella campagna cremonese. È un libro che dovrebbe essere segnalato anche nelle scuole dove purtroppo si fa troppo poco per lo studio della storia dell’ultimo secolo.
Tutto questo lo abbiamo fatto con l’unico scopo di dare testimonianza di un triste passato, affinché questa conoscenza possa servire da guida per il futuro.

La guerra fra italiani combattuta fra il 1943 e ’45 non ha bisogno di interpretazioni che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, perché la moralità della Resistenza consistette nella determinazione degli antifascisti di difendere l’Italia a costo di qualsiasi sacrificio. Valgano per noi antifascisti italiani rispetto alla guerra del ’43-’45 le parole pronunciate dopo la guerra civile americana da Frederick Douglas, abolizionista nero nato schiavo:

“Non ci deve essere chiesto di dire che non c’era alcuna differenza fra coloro che combatterono per l’Unione e coloro che combatterono contro perché da una parte si lottava per la libertà, dall’altra per il mantenimento della schiavitù.”

Recentemente, alla ricerca di qualche altro particolare sulla vita di Renato Campi, mi sono trovato tantissime volte di fronte a persone che non conoscono neppure questo nome. Mi sono chiesto allora se è giusto che su questi uomini che hanno pagato con la vita l’aspirazione a vivere con dignità in un paese libero, debba scendere il più completo oblio.
Non dimentichiamo che il loro sacrificio ha dato a tutti noi la libertà. Mi rendo conto che sono passati tanti anni da quegli avvenimenti; so benissimo anche che fra poco tempo di noi che quei tempi abbiamo vissuti non ci sarà più nessuno.
Per questo penso che non debba apparire strano che oggi, a distanza di 60 anni dalla Liberazione e dalla fondazione della nostra associazione io abbia voluto – insieme a tutti voi qui presenti ai quali va il nostro sentito ringraziamento per la vostra partecipazione – ricordare soprattutto ai giovani e per i giovani la tragica morte di uno di loro, così poco conosciuta dagli stessi suoi concittadini.

Renato Campi, un ragazzo della nostra città, che il 16 febbraio 1945 è stato fucilato al Po. Di questo giovane, del quale fino ad ora non si è mai parlato, certamente non vi è molto da raccontare, non ha compiuto clamorose azioni; e come avrebbe potuto? Quando ai giovani si schiude la vita – a lui toccò la morte. Noi abbiamo voluto ricordare Renato Campi perché in lui si possono identificare tanti, troppi giovani a cui fu stroncata la vita. Non erano degli eroi, ma uomini normali che però, posti davanti alla drammatica scelta di aderire alla Repubblica Sociale – erede del fascismo – scelsero, a costo di tanti pericoli, di stare con chi combatteva per la libertà.
Ai primi giorni del gennaio del ’45 assistiamo nella nostra città ad una intensa ripresa dell’attività dei movimenti clandestini.
Le carceri di via Jacini sono al completo così che ogni poco gruppi di detenuti vengono portati al carcere di Bergamo. I fascisti, di fronte a questo intensificarsi di attività, si fanno ancora più attenti e, purtroppo, sentendo ormai vicina la sconfitta, in varie occasioni anche più violenti.
Ai primi di febbraio vengono arrestati nove giovani studenti del Fronte della Gioventù, che vanno a raggiungere il piccolo gruppo di liberali che già erano rinchiusi con vari comunisti e socialisti in via Jacini.
Per rendere il clima di insicurezza di quei giorni, voglio ricordare un episodio del tutto casuale capitato a me. Una domenica pomeriggio transitando a Porta Venezia incontro Lionello Miglioli, che conoscevo bene. Ci fermiamo a guardare verso la caserma dei pompieri dove 3 compagnie di militi repubblichini erano tornati dai rastrellamenti effettuati nelle nostre campagne ed avevano catturato quattro o cinque ragazzi che non si erano presentati alla chiamata alle armi.
Il capitano che li comandava chiama un milite che viene subito verso noi due per porci varie domande; ritorna dal suo comandante che lo rimanda da noi una seconda volta chiedendoci mille spiegazioni, cercando un pretesto qualsiasi per fermarci.
Per nostra fortuna eravamo in regola ma soprattutto rispondiamo con calma, poi lentamente ci incamminiamo verso il centro città.
Durante l’interrogatorio avevo notato che l’amico era leggermente sbiancato e scherzosamente glielo feci osservare; al che egli aprì un po’ il paletot. Sotto aveva un pacco di giornali clandestini di Giustizia e Libertà. Se lo avessero perquisito saremmo finiti subito lì vicino a Villa Merli e con ogni probabilità oggi non sarei qui.
Ed è proprio in quei giorni che Renato Campi viene arrestato.
Egli era nato a Cremona il 22 dicembre del 1925 da una famiglia numerosa e di umili condizioni, abitante in via Alfano Varo 13, verso corso Garibaldi. Era una strada solitamente poco frequentata che io percorrevo spesso perché abitavo a quel tempo in via Ghinaglia. Il padre Alfredo lavorava come carrettiere e la madre, Giuseppina Gandolfi, era casalinga. Era un giovane molto conosciuto e caro ai ragazzi della città, perché durante la fiera di S. Pietro si esibiva spericolato nel “numero della morte”, un baraccone cilindrico che si sistemava nel lato nord di Porta Po e gareggiava con la motociclista acrobata. Renato correva nella scia della giovane vestita con una tuta funerea, la moto gli dava velocità, quindi da solo pedalava carico di quella forza centrifuga acquisita.
A soli diciannove anni fu chiamato alle armi nella Guardia nazionale repubblicana, formazione armata fascista della repubblica di Salò, ma il suo spirito libero non poteva consentirgli di vestire quella divisa. Così fuggì e salì in montagna, entrando a far parte, con altri cremonesi, del distaccamento “Pietro Silva” della 62° brigata Garibaldi “Luigi Evangelista”, comandata da un tenente jugoslavo. Il suo distaccamento era attestato fra le mura dell’antico castello di Vigoleno, in Val d’Arda.
Questa sua partecipazione è attestata da un documento rilasciato dalla Commissione regionale di riconoscimento partigiano dell’Emilia Romagna in data 18 luglio 1946.
Salvatosi dal feroce rastrellamento del 6 gennaio 1945 effettuato dalla 162a divisione di fanteria Turchestan, composta da truppe di mongoli al servizio dei tedeschi, Renato Campi decise di aderire all’invito fatto ai partigiani dal generale Alexander che aveva chiesto di sospendere la loro attività nei mesi invernali, per poter superare i gravi disagi dell’inverno in montagna – appello però non ascoltato dalla stragrande maggioranza dei partigiani.
Il giovane Campi però non rientra direttamente ma passa da Crotta d’Adda, dove soggiorna vari giorni alle Basse, una grande azienda agricola, vicino ai boschi rivieraschi, in casa di una sua parente, lavoratrice agricola della cascina. Poi, considerato che il posto era ritenuto malsicuro, decise di far ritorno a Cremona.
Sfortunatamente dopo qualche giorno, forse segnalato da qualcuno che lo conosceva, in una di quelle notti che per anni abbiamo vissuto dove il buio nelle strade era totale in un’atmosfera gelida ed irreale, verso il 12 di febbraio gli sgherri della milizia fascista irrompono nella casa del padre, Renato viene arrestato e portato a Villa Merli, sede dell’UPI, in via Trento e Trieste, tristemente nota come luogo di sevizie sugli arrestati.
Torturato con scosse elettriche, subisce un lungo interrogatorio, ma egli resiste. Non parlerà, non rivelerà nulla.
Recentemente, per testimonianza diretta, sono venuto a conoscenza del fatto che proprio il giorno prima del suo arresto Campi aveva cercato ed avuto un incontro con un organizzatore della Resistenza cremonese per offrire la sua disponibilità e collaborazione nella lotta clandestina.
Questo ci conferma come egli avesse maturato una scelta che sapeva pericolosa, ma che egli riteneva giusta e nobile.
Se egli avesse parlato di questo incontro, parecchie persone sarebbero state scoperte ed arrestate. Ma egli non parlò.
Trasferito alla caserma Muti di via Ettore Sacchi, viene portato davanti ad un sedicente “tribunale straordinario di guerra” della guardia nazionale repubblicana che lo condanna a morte.
Due giorni dopo, alle sei del mattino del 16 febbraio, viene fatto uscire dalla caserma per l’esecuzione.
Renato volle fare a piedi tutto il viale Po, attraversando quella piazza che lo aveva visto festante nei giorni della fiera di San Pietro.
Senza tentennamenti – non indossa nemmeno la giacca, siamo in febbraio – arriva al poligono di tiro che si trovava in fondo al viale Po, sulla destra, dopo la ferrovia per Piacenza e la via Eridano, sul terreno ora occupato dalla raffineria. Percorrendo il non breve tragitto fino al Po, a lui ben noto, Renato Campi avrà ripensato alla sua giovane vita già finita, alla famiglia, alla mamma morta, agli amici, alla libertà. Egli cammina mostrando grande coraggio e nessun cedimento.
Arrivati – scortato dai militi fascisti sul piazzale del poligono di tiro – si trovano di fronte all’edificio sull’ingresso del quale era posta una targa con la scritta “Vietato l’ingresso agli estranei”. «Allora io non posso entrare» – egli disse rivolto ai militi che lo scortavano. Dopo di che, quando lo fecero entrare e lo misero di fronte al plotone d’esecuzione, chiese di non essere bendato e offrendo il petto disse: «Fatemi morire bene. Viva l’Italia!» Queste furono le sue ultime parole.
Una scarica di fucileria, ordinata da un capitano della milizia fascista, purtroppo un cremonese con negozio in fianco al Duomo, che andava anche a fare rastrellamenti di giovani che non si erano presentati per essere arruolati, stroncava così la vita di un ragazzo di venti anni.
Due mesi dopo sarebbe finita la terribile guerra.

Sarebbe sbagliato pensare che quella frase, quella battuta “Allora io non posso entrare” detta in un momento così drammatico, possa significare una superficialità di carattere che non si rende pienamente conto di quello che sta per accadergli.
Non è così, perché il nostro Gavroche cremonese – come quello dei Miserabili di Victor Hugo, morto sulle barricate di Parigi – è tutt’altro che ingenuo o sprovveduto. Rivela invece un carattere forte, capace di affrontare i rischi e la morte con spavalderia e sprezzo di pericolo.
Questo, amici, cremonesi, è uno dei tanti giovani partigiani che troppo spesso tedeschi e fascisti usavano impiccare sulle piazze, sulle strade dei nostri paesi e delle nostre città con un cartello appeso al collo con la scritta “bandito”.
Ritengo di non aver altro da aggiungere, perché penso che non ci siano parole che possano esprimere meglio l’animo di questo giovane, che quelle scritte da lui stesso, ben conscio della sua morte.
Non una invettiva, non una parola di odio contro i suoi carnefici. Ma tanto amore per la famiglia, per il caro fratellino. Quanto coraggio, cuore e umanità in questo scritto.
Il testamento di questa piccola grande anima è questo foglietto ingiallito e sciupato dal tempo che mi trema tra le mani che Renato Campi scrisse a matita per il padre e consegnò alla sorella Andreina qualche ora prima di morire.
Con profondo rispetto ve ne do lettura.

Caro Papa prima di morire credo opportuno ancora di farti sapere qualche cosa per me.
Caro Papa sono qua ancora poche ore e poi dovrò morire e mi sento di dirti che ti ho tanto amato tanto te come la mamma la tua cara Moglie che mi ricordo che poco tempo prima di morire mi ha detto queste parole.
Renato so che devo morire, ti raccomando tuo fratello Carlo
E poi ma detto anche che doveva dirmi qualche cosa a me per te. Il giorno dopo quando andavo a trovarla purtroppo era già morta.
Caro papa mi dispiace molto morire perché non posso più vederti, avrei voluto poterti vedere ancora una volta ma vedi il destino ha voluto così. Caro padre devo dirti che quando saprai questo non disperare non pensare a noi perché quassù in cielo stiamo bene, perciò ti chiedo di non fare come prima cerca di capire perché ci sono ancora tante cose in casa per esempio il Carlo che ha bisogno di un’educazione l’Andreina che è stata per me come una madre e così anche la povera Elide amata anche lei. Papa questo non importa ormai è passata. Chissà che anche per la nostra famiglia sia finita qua.
Credo che è abbastanza.
Caro papà ti saluto ti abbraccio ti bacio ti auguro una nuova vita e ti proteggerò e ti guarderò io dal cielo, ti raccomando la nostra famiglia specialmente il mio caro fratellino Carlo che ciò voluto tanto bene ciao Papà.

Lasciate allora che io affidi a voi cari amici, soprattutto a quelli più giovani, il ricordo di Renato e di tutti gli altri nostri caduti e con esso l’impegno a tramandarne la memoria e a camminare ogni 25 aprile, la mano nella mano stringendo con le altre fra le vostre anche quella di Renato per l’affermazione di una società da noi tanto sognata di giustizia e di libertà.
Grazie.